CAPITOLO I

 

Preambolo

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Canale di Suez e mar Rosso


 


Eliminate le volgaritá turistiche che sfigurano oggi giorno le rive del Mediterraneo e ritroverete, intatto, l' antico sapore affascinante dei paesaggi e della gente.

Guardate, brilla negli occhi di quella contadina spagnola incontrata alla svolta d' un camino di terra rossa, vive nei gesti di quella buona italiana che trita i pomodori in fondo ad una stradella popolata d' ombre blu-viola. Guardate quel contadino seduto alla fragile ombra di un mandorlo, dal tronco nero, che perde i suoi petali bianchi ad ogni soffio di vento.

Ben campato su una sedia impagliata, un bicchiere di vino a portata di mano, con un mestolo di legno, gira i tuorli d' uovo in un mortaio.

A goccia a goccia, lascia colare un bell' olio d' oliva biondo, poi aggiunge l' aglio pestato in quantitá sufficiente per far scolorire l' aioli. Uno sguardo, per misurare il pepe e la goccia di aceto della fine. Si puó mangiare con patate cotte sotto la cenere ed é delizioso.

pittura a olio di O.Gonet

 

Ed il piccolo mondo dei pescatori ?

" Conosci la pesca al tonno ? " mi chiese un amico spagnolo. Certo che conosco la vita delle barche da pesca graffiate e consumate dal lavoro dei marinai.

" No, no ! parlo della pesca con reti. Andiamo a vedere ! "

Ed eccoci partiti.

Un villaggio, al sud di Cartagine. O per meglio dire, un involo di casette bianche che scivolano dalla cima della parete roccosa, sino all' acqua viola dove alcune pietre quadrate, messe tutte di traverso, formano una specie di pontile. Galleggiando sull' acqua limpida, ci sono al massimo mezza dozzina di barchette a remi.

Poche famiglie di pescatori, qualche vecchietta con un tuppo grosso come una cacchetta di capra e, all' uscita della scuola, pochi ragazzini dal sorriso scheggiato che fanno i marioli con un bidone ammaccato.

E' giugno, la stagione del tonno.

Tutti i pescatori si sono sottomessi all' autoritá energica di Giovacchino. Sembra il re d' Itaca. Un po' maturo, ma ancora robusto, barbuto dall' occhio di carbone. Regna su un popolo di pescatori, quasi tutti membri della famiglia.

Hanno immerso, di fronte al villaggio, una rete gigantesca, lunga di alcuni chilometri, aperta tutta grande al passo sperato del tonno. Questa rete, ritenuta sul fondo da un rosario di enormi ancore di caravella, termina con una vasta calza di fina rete.

Ed ora aspettano, seduti sul molo, mormorando come in chiesa.

Lontano, uno di loro, sorveglia immobile in una barca. E la cosa dura delle volte vari giorni, altre volte varie settimane.

Di colpo, una mattina, una sera, a un momento qualunque, la calza si riempie in pochi minuti di una massa frenetica e luccicante. I tonni sono arrivati.

Allora tutti si precipitano. La macelleria comincia !

Quando tutto é finito, c' é festa al villaggio. Vino, chitarra e la grande mangiata. Il re di Itaca é tanto celebrato come preso amabilmente ingiro dalle vedove che ridono come se dovessero alzarsi in volo.

Solitario, sul piú alto degli scogli, malgrado i lazzi dei festeggianti, la forma scura di un pastore non si é mossa nemmeno di un dito.

Il vento che mi scompiglia i capelli, fa correre straschichi di nuvole nel paesaggio. Degli aghi di sole svettano lontano sul mare che rabbrividisce di luce.

Questa é la mia patria. E questo che tento di dipingere oggi, provandone un piacere sempre nuovo, malgrado gli anni che passano.

* * *

Parecchi anni fa, nel 1965, di fronte alla costa libica ( all'epoca del re Idris), navigavo a bordo del veliero oceanografico l' ATUANA. A quel momento dirigevo un programma di ricerche archeologiche sub-aquee in collaborazione con un amico : Max ed un piccolo equipaggio di marinai e di tecnici.

l'Atuana, il mio caro, vecchio veliero nel Mediterraneo

 

Nel famoso golfo del Gran Sirto, fra Tripoli e Bengasí, fummo sorpresi dal mal tempo.

Dall' antichitá, da Omero e la Odissea, il golfo di Sirto ha cattiva fama. All'epoca delle galere e delle anfore, la sua reputazione era tale che in inverno, alla brutta stagione, i marinai preferivano tirare le barche a secco ed aspettare tranquillamente la primavera. Oggi giorno ancora i libri d' istruzioni nautiche sono pessimisti. Dei venti violenti agitano un mare con onde alte e corte. Naturalmente di preferenza in inverno.

Eravamo a gennaio ; ma insomma, dovevamo passare in quelle acque per continuare il viaggio ed eravamo giá in ritardo sul programma previsto. Appena si era messo ad ululare il vento, che le onde si alzarono velenose. S' increspavano lungo la carena del veliero completamente coricato sul mare. Dentro, Bechir, il cuoco, preparava il pranzo, ma l'inclinazione era tale che si trovava con i piedi sulla parete della cucina e la schiena appoggiata al suolo quasi verticale.

Ed il mare si agitava sempre piú.

A questo punto le impennate del veliero provocavano delle scosse lente ed al tempo stesso brutali, di una forza inimagginabile per chi non ha mai navigato. Ed ecco, di colpo, gli armadi del salone si aprirono vomitando, in una confusione terribile, provviste, vestiti, libri e dio sá cosa ! E per somma disgrazia, una fila di bottiglie di vino rosso si fracassó al suolo sull'orribile miscela di cose che ci ballavano giá.

Fuori, il cielo nero cominciava solo a venti metri piú sú degli alberi. La pioggia cadeva orizzontale. L' essenziale era di non perdersi. Ma in quel caos liquido non si vedeva piú niente.

A quell' epoca non esisteva l' orientazione per satellite... Il cielo completamente coperto impediva l' uso del sestante. Rimaneva l' apparecchio di radio-gonometria e sopratutto la brava e vecchia navigazione stimata.. Disgraziatamente, con il cattivo tempo, la precisione diminuisce e dopo cinque o seicento chilometri di navigazione, arrivó un momento in cui dovetti riconoscere che non sapevo piú dove ci trovavamo. E nel veliero preso dalla tormenta, fu altamente spiacevole riconoscerlo. Mi ricordo delle ore passate di fronte al goniometro alla ricerca delle emissioni dei radio-fari. Era un grosso armadio di metallo grigio ; due quadranti verdastri mi fissavano stupidamente. Sul fianco pendeva l' orecchio di un telefono di bachelite nera, consumato dalla salsedine.

Durante la terza notte di tempesta, riuscimmo finalmente a sintonizzare l' emettore di Bengasí. Seguendo la sua direzione, per finire, uno di noi riuscí a indovinare, attraverso le cataratte di pioggia, l' entrata del porto.

E sempre un piacere sottile e nuovo, venendo dal vasto orizzonte libero a bordo di una imbarcazione, distinguere alcuni dettagli della terra che sembra perduta sul grande oceano. E anche un piacere vecchio come il mestiere di marinaio. Durante il viaggio, il mare fu difficile o amicale, la vita a bordo monotona o violenta, ma sempre la prospettiva dell' arrivo evoca la medesima festa.

Appena gettata l' ancora e ben presa sul fondo, abassate la vele e ben piegate sulle bome, si corre a terra per vedere la gente, gli alberi, le cose. Per ascoltare, sentire e bere la vita che ti scoppia in faccia.

Ma innanzi tutto, si deve affrontare la dogana !

Un mazzetto di primule infilate in un bicchiere, adornava il tavolino del funzionario, grosso ed inturbantato, che ci tormentava con la sua curiositá amministrativa. Tirando fuori la lingua e rispettando scrupolosamente i margini di una pagina d' un quaderno da scuola a quadretti celesti, scriveva le nostre risposte con un pennino piantato all' estremitá di una penna di legno rosicchiata dall' esitazioni.

Dietro di lui si accumulava come un inizio di fortino di carta. Dei blocchetti di fogli tutti uguali : le risposte di tutti gli equipaggi che ci avevano preceduti da solo Dio sá quando.

Per non ridere, rischiando di offenderlo, non gli chiesi chi si supponeva dovesse leggere tutto quel casino.

Ecco uno degli inconvenienti delle culture mediterranee : il gusto per le leggi, i giuristi ed i funzionari é piú salato che altrove. Le grosse e molli natiche della statua dello scriba seduto da quattromila anni all' entrata della tomba di Tutankamon, sono sempre tiepide e vive, anche nelle amministrazioni moderne.

Qualche giorno dopo, salpavamo di nuovo.

A l' est di Bengasí, una cittá piuttosto grande picchiettata dai minaretti, le ultime case e le ultime immondizie si perdevano nel deserto che cominciava. Un deserto di rocce polverose e di sabbie pietrose. Ogni tanto, alcuni cespugli assolutamente secchi, indicavano ancora il letto di un torrente morto da tempo.

L' aspetto romantico che prende a volte l' avventura, mi saliva a poco a poco alla testa. Come una illustrazione di vita felice, il veliero scivolava nervosamente inclinato. Una lenta altalena, un mormorio di onde blu-viola che scorrevano sotto la carena. Mi stendevo nella rete sospesa sotto il bompresso e lá ascoltavo grondare l' etrave che si apriva cammino. In alto, sopra la testa, una nuvola di vele bianche, un disegno complicato di draglie e l' albero di maestra che gemeva inclinandosi ad ogni raffica di vento.

Il piacere semplice della navigazione con bel tempo.

Il veliero si allontanava un poco dalla costa. La terra spariva all' orizzonte. Non c' era piú che il cielo viola ed il mare ancora piú viola.

Poche ore dopo la terra riappariva.

Ben presto potremmo distinguere il sorriso delle rovine bianche di Apollonia.

Era lá che ci dirigevamo.

All' epoca dei greci, Apollonia fu il porto lussuoso della lussureggiante Cirenaica.

Ormai la cittá era morta da tempo e l' antica colonia, orgoglio dell' aristocrazia antica, non era piú che un deserto vasto, bianco e solitario.

Per prima si avanzavano i muri massicci del porto. Proteggevano le acque verdi di una vasta laguna dalla quale emergevano tre colline composte da una pietra cosí bianca che si sarebbero dette dipinte recentemente alla calce. Su ciascuna delle cime, i tronchi bianchi di un tempio morto.

Con lo scorrere dei millenni, la costa libica é stata sottomessa a dei movimenti geologici estremamente lenti. Precisamente qui, si era sprofondata di qualche metro al disotto del mare. Le tre colline, che a quell'epoca dominavano la cittá di Apollonia, erano diventate tre isolette circondate dal mare. Tutto il resto era inondato.

Sul fianco di una delle colline, c' era come la traccia d' una gigantesca morsicatura gessosa : le rovine di un anfiteatro in forma di mezza luna. Anche lui, evidentemente, si era affondato parzialmente nel mare, ma la parte superiore dei gradini emergeva ancora. Disegnava un' ansa ben protetta dal vento.

Fu lá, al centro della scena, che buttammo l' ancora. Il veliero, come circondato da spettatori assenti, ondeggiava sulla sua propia ombra. Esattamente a fianco del teatro, le strade uscivano dal mare, si prolungavano sulla riva, salivano sulla collina e giungevano in una apoteosi, davanti a una fila di colonne bianche erguite su un tappeto di mosaici rosicchiati. Era il tempio di una delle tre colline, c' éra una atmosfera di chiasso spento, di agitazione immobile. Sott' acqua continuava lo spettacolo. Strade, negozi, botteghe di artigiani dalle quali uscivano nuotando dei banchi di pesci.

La maggior parte della cittá inondata era coperta, probabilmente per sempre, dalla sabbia della laguna, ma alcuni quartieri erano stati protetti dal logorío delle onde, dalla massa del porto in rovina. Era un porto di tipo fenicio. Come a Tiro, sulla costa libanese, era diviso in due parti ben distinte : una aperta sul mare, l' altra piú piccola, circondata da fortificazioni difensive contro gli eventuali nemici venuti dal mare. Giustamente lí, nel fondo di quel secondo porto, si trovavano magnificamente conservate, le istallazioni di riparazione e d' invernata delle imbarcazioni. Il golfo di Sirto é vicinissimo. Le antiche galere, aspettavano qui prima di osare attraversarlo.

Apollonia, cittá morta, capitale di una terra morta.

E pertanto, venuti da chisá dove, una dozzina di individui dall' aspetto patibolare, ci osservavano da lontano. Inutile cercare guai, alla caduta della notte era meglio rimanere protetti dal battello ed ascoltare le storie che raccontava Bechir, il cuoco tunisino.

L' avevamo contrattato poche settimane prima, all' occasione di una scappata al "Grand Café de Paris et des Colonies", a Tunisi. Un omino tutto grigio, tranne il mento ombreggiato dalla barba. Durante tutte quelle serate, sotto le stelle, presso la linea oscura delle rovine di Apollonia, ci raccontó, senza saperlo, delle leggende che venivano direttamente dall' Antico Testamento. Un Mosé, vestito con una djellaba, attraversava il mar Rosso grazie ai miracoli di Allá. Ci raccontava pure la storia di una specie di Erodoto tunisino che scopriva le piramidi d' Egitto senza sapere ch' erano delle tombe. E poi delle lunghissime leggende di guerrieri nel Sahara.

Molti anni sono passati da quelle serate a bordo de l' ATUANA ancorata nell' anfiteatro di Apollonia. Solo poche immagini nostalgiche affiorano nella memoria. Per esempio quella di una principessa deliziosamente bella e pura. Per descriverla, Bechir ci raccontava che aveva il sesso simile all' impronta dello zoccolo di una gazella nella sabbia del deserto.

Nel frattempo, una grossa e stupida luna rossa s' alzava all' orizzonte. Nella nuova luminescenza, la lampada a petrolio, accesa sul ponte, non illuminava piú che i bicchieri pieni di vino rosso.

Ritratto di Bechir (disegno a penna di O.Gonet)

 

Isola di Cipro, maggio 1967,

Mezzanotte suonava al campanile del villaggio nascosto dietro la costa, quando alcuni mesi dopo, gettammo l' ancora in una piccola insenatura al sud dell' isola di Cipro. Arrivavamo direttamente dal mar aperto ed eravamo stanchissimi. Avevamo bisogno d' una buona notte di sonno prima di affrontare la dogana del porto di Famagosta, antica capitale e porto principale dell' isola.

Cinque minuti dopo, tutto dormiva a bordo.

All' ora dei primi biancori umidi dell' alba, un urto contro la carena ci sveglió di soprassalto. Si trattava di una barchetta a remi occupata da un omone dotato di enormi baffi tremolanti di furore. Ed eccolo urlante in una lingua tanto rasposa come incomprensibile. L' indice che brandiva rabbiosamente verso l' alto mare, era il piú chiaro di quel diluvio di parole. Voleva farci partire nel medesimo istante. Pierre, il fotografo di Zurigo, che era meglio non svegliare di soprassalto, schizzó fuori scapigliato e, immediatamente, vomitó sull' individuo un torrente di ingiurie in puro svizzero-tedesco. Nella conchiglia di noce, il nobile cipriota, cadde seduto di spavento. Una volta rimesso dall' emozione, ci spiegó in un inglese aprossimato che, per caso, avevamo buttato l' ancora esattamente nel mezzo della linea che separava i partigiani ciprioti-greci dai partigiani ciprioti-turchi. I primi si trovavano sulla riva sinistra ed i secondi sulla riva destra. All'alba ricomincerebbe la guerra e la nostra presenza impedirebbe la precisione dei tiri.

Ah, caro Mediterraneo, il tuo umanismo resiste perfino alle guerre civili.

Ben inteso, lasciammo quei fieri guerrieri trucidarsi come l' intendevano loro ed andammo ad ancorarci nel porto di Famagosta.

Famagosta : una strana miscela di villaggio greco, mercato turco e colonia inglese. Gl' inglesi, in pantaloncini, un casco a forma di piatto fondo rovesciato sulla testa, si sforzavano, amabilmente, di separare i mussulmani dagli ortodossi che si detestavano da generazioni.

* * *

Eravamo andati a Cipro per studiare la struttura geologica del fondo marino. A tal fine, decidemmo gettare l' ancora al Nord-Ovest dell' isola, nella bellissima cricca di Krisokhu. A parte l' organizzazione politica instabile, l' isola di Cipro era deliziosa. Delle rive bordate di schiuma, come diceva Omero. L' isola della deessa della bellezza, come dice altrove.

A due passi dal veliero, dietro un paravento di pini inclinati sul mare, al fondo di un sentiero di polvere rossa, si giungeva al villaggio.

Quando sbucammo sulla piazza, le bocche ed i baffi si aprirono di meraviglia. Degli stranieri ! La vita si fermó di colpo. Eravamo l' avvenimento dell' anno in quel piccolo mondo in cui non succedeva mai niente.

Un minuscolo caffé esponeva, lungo la facciata, tre tavolini rotondi e qualche sedia di paglia. Il trotterellare degli asinelli che sparivano sotto un carico di verdura, faceva tremare i bicchieri di anisetta che il cameriere, un orgoglioso anziano, le cui brache pendevano sino al ginocchio, aveva poggiato davanti a noi.

Ritratto di una contadina incontrata a Cipro

disegno a penna di O.Gonet

 

Una stupida ferita che mi ero fatto sotto l' unghia del pollice, si era infettata e, da una settimana, maturava un orribile gira-dito rosso e bollente. Mi faceva soffrire molto, anche perché una maledizione me lo faceva urtare contro ogni oggetto pungente o contundente a portata di mano. Brandendo il pollice colpevole sotto il naso dei passanti ed articolando distintamente qualche parola d' inglese coloniale, cercavo d' informarmi circa un eventuale ricorso medico. Miracolo ! C' erano due medici nel villaggio. Uno di qua, l' altro di lá. Tutti coloro che interrogavo, sostenevano che erano stati salvati da una morte certa dall' uno o dall' altro dei due sapienti scienziati. Scelsi colui che viveva qui e seguendo le abbondanti indicazioni topografiche, sboccai davanti ad una simpatica barracca di legno dipinto, piantata un poco di traverso, in un giardinetto di cattive erbe. Giusto davanti all' entrata, la capra di " Monsieur Seguin " pascolava intorno al picchetto.

Era proprio lí. D' altra parte, il sapiente anziano occhialuto che mi accolse, aveva l' espressione di competenza grave, proprio della professione medica.

Per essere sincero, il gabinetto di consultazione assomigliava alla capanna di attrezzi di mio nonno : il pavimento di terra battuta ed un odore di patate.

Per contro sul tavolino c' era una bacinella di ferro smaltato ed un autentico scheletro umano appeso per il collo al pomo dell' unica finestra. Non capii niente al discorso del medico. Non l' ascoltavo nemmeno, talmente temevo riconoscere le parole " purga " o " salasso ". Eh beh, no ! si decidette per una ragionevole inizione di penicilina. Dopo aver teso la natica alla siringa, l' invitai a celebrare l' imminente guarigione, al caffé della piazzetta dove mi accompagnó pieno d' intusiasmo. Probabilmente profittó dell' occasione per dimostrare ai suoi clienti che venivano addirittura dall' estero per consultarlo.

Qualche giorno dopo, visto che le cose non andavano per il meglio, decisi di consultare l' altro medico. Arrivando da lui, lo scoprí dietro la casa, spalle nude e muscolose, occupato a degli esercizi d' atletismo : sollevava, grugnendo, un enorme peso. Visto che applaudivo educatamente, profittó della mia presenza per fare sfoggio dei suoi talenti, sollevando con una sola mano il peso che esigeva d' ordinario la totalitá delle sue forze.

Era un espansivo, lui ! esercitava la medicina nella gioia. Il mio giradito, talmente gonfio che lo sentivo pulsare, lo fece morire di risa. Con la sua enorme mano appoggiata sulla spalla, m' introdusse direttamente nel gabinetto di consultazione dove, armato d' un paio di forbici di sarta, taglió nel vivo. Il pus schizzó sino al soffitto ! Ma ero guarito istantaneamente.

* * *

Giovedí, giorno di mercato al villaggio. Gli asinelli, carichi di anfore di vino, trottavano nella polvere della piazzetta. Sotto le volte romane delle facciate, una fila di vecchiette, con la testa coperta da un fazzoletto nero, chiacchieravano e ridevano con tutte le gengive nude. Sedute all'ombra, offrivano alla vista cipolle, melloni o dei formaggi di capra che avevano poggiato direttamente a terra su un fazzoletto. Giusto a fianco, alcuni gattoni, la pancia piena, dormivano tra i rifiuti di pesce. Seduti intorno ai tre tavolini del café, gli uomini bevevano tranquillamente un the nero, giocando al domino.

Le 11 del mattino. Una certa animazione accompagnó l' arrivo del " dentista ". Eccolo in piedi sulla carretta tutta dipinta di reclam scorticate. Con una tenaglia stretta nel pugno, vantava la sua fama di mano leggera : Estrazioni indolori :" non si sente niente ! " E per dimostrarlo, tracciava nell' aria un movimento ampio e leggero. Tutt' ingiro alla carretta aveva disposto dei cestini pieni di dentiere per tutte le bocche : "garantite veri denti ". Un assistente aiutava a provare le dentiere, poi tendeva uno specchio al fine di mostrare l' effetto del nuovo sorriso.

Al fondo della piazzetta, alle spalle del ciarlattano, una chiesetta ortodossa si nascondeva sotto i rami di un enorme eucaliptus. Dentro,tutto era oscuritá e frescore. Alcune vecchiette in ciabatte polverose, bisbigliavano le preghiere davanti ad una candela.

* * *

A bordo il lavoro scientifico continuava, monotono come quasi tutti i lavori scientifici. Numeri e numeri senza nessun interesse immediato. Troveranno un senso piú tardi, quando saranno riportati sulle carte geofisiche o digeriti da un computer. Per fortuna dovevamo tuffarci spesso per verificare il buon funzionamento degli apparecchi che trascinavamo dietro una piccola barca a motore o per staccarli quando si trovavano presi fra due scogli capelluti. Giustamente, durante queste immersioni subaquee, avevamo notato al bordo della roccia immersa, una collina costituita totalmente di cocci di anfore. Una massa solidificata di parecchi metri di spessore, che si allungava su dei chilometri. Una tale massa di anfore era troppo importante per una provincia cosí piccola.

Qualche settimana piú tardi, lasciai provvisoriamente il battello per dare a Londra una conferenza sui risultati ottenuti sulla costa libica e, per caso, parlai anche di quella accumulazione di cocci sulle rive di Cipro. Un giovane archeologo inglese s' interessó alla cosa e mi chiese dettagli troppo sapienti per le mie conoscenze. Me la cavai invitandolo a bordo al fine di poter rispondere lui stesso alle sue domande.

Appena arrivati a Cipro, si mise dunque al lavoro su quello strano panettone, riempiendosi la cabina di campioni di cocci accuratamente numerati. Ed al fine trovó una spiegazione sensata a quell' antica scarica subaquea.

Bisogna sapere che l' agricoltura dell' isola di Cipro era ben conosciuta nell' antichitá, ma l' isola era soggetta alla siccitá che, all' epoca di Omero, era la disperazione dei contadini. Per contro, giusto difronte, a cinquanta miglia al nord, la costa turca, povera e quasi inabitata, riceveva abbondante acqua, portata dai fiumi d' Anatolia, che si perdeva stupidamente nel Mediterraneo. Esisteva, quindi, una corrente d' importazione d' acqua dolce fra la Turchia e l' isola di Cipro. Acqua trasportata a remi e contenuta naturalmente nelle anfore.

Disegno a penna di O.Gonet

 

Nell' antichitá, le anfore non dovevano costituire un recipiente molto caro, ma la sua fabricazione necessitava, malgrado tutto, la presenza di mine di terra di buona qualitá. Ora questo tipo di mine, senza essere rara, era poco frequente sulla costa mediterranea che é secca. Era,poi, necessario un buon artigiano per darle forma e molta legna, relativamente cara, per cuocerle. Dovevano, poi, essere trasportate e vendute. Insomma, senza essere carissime, dovevano rappresentare un piccolo capitale. Allora, come si farebbe ancora oggi fra gente ragionevole, gli antichi cercavano di farle durare il piú a lungo possibile. All' inizio, servivano a trasportare prodotti nobili e cari : olio d' oliva o vino. Ma dopo alcuni viaggi, cominciavano a puzzare d' aceto o d' olio rancido. Allora le vendevano di seconda mano, per esempio per trasportare semi e grano. Poi, quando avevano perduto un' ansa o ch' erano sbrecciate, erano rivendute per trasportare merce ancora meno delicata, e cosí sino al momento in cui arrivavano sporche, sbrecciate, vecchie e brutte, sulla costa turca, dove erano rivendute per pochi soldi ai rematori ciprioti, venuti a prendere l' acqua dolce.

Cinquanta miglia remando per ritornare a Cipro, non era una impresa titanica, ma nemmeno cosa da niente e le barche erano piú rapide e leggere quando andavano a vuoto. Per questo, dopo aver innaffiato gli orti ciprioti con l' acqua turca, per risparmiarsi la pena di ritornare carichi di pesanti anfore vuote, i marinai le gettavano al mare.

E la cosa duró vari secoli, il tempo d' accumulare quella montagna sottomarina di cocci.

Recentemente ho ricevuto il libro che scrisse quell' amico inglese. Utilizzando i campioni che aveva raccolto con tanto intusiasmo, aveva identificato l' origine delle anfore . Infatti, vicino al collo o all' ansa o alla base della grossa pancia, le anfore hanno spesso un segno o un simbolo. Si tratta della firma dell' artigiano che l' ha fatta o del commerciante che l' ha fatta fare. Appuntando tutte quelle indicazioni e comparandole ad altri dati conosciuti dagli archeologhi del Mediterraneo, riuscirono a ricostituire parzialmente il tracciato delle grandi vie commerciali dell' antichitá.

* * *

Dopo vari mesi passati a Cipro, avevamo previsto passare col veliero il Canale di Suez per partecipare ad un programma di ricerche scientifiche sul corallo tropicale nel Mar Rosso. Ma prima di tutto dovevamo andare a Beirut per pulire e ridipingere la carena.

A quell' epoca Beirut era ancora la capitale di un Libano felice, ospitalario e fiero del lusso incomparabile nel medio-oriente.

Dopo il fascino bucolico della cricca a Cipro, il rumore e l' agitazione della cittá ci apparvero affollanti : le sirene delle navi, il cigolío delle gru, i rumori del cantiere, i colpi della masse sulle carene, il sole di un saldatore, l' angoscia di una sega da metallo. E poi gli arabi in pigiamma che si bisticciavano al sole, alcuni ragazzini nudi che gridavano spingendosi nell' acqua sporca del porto e che lasciavano sulla pietra del molo l' impronta bagnata di minuscoli piedi. Dietro il cantiere navale, il grondare della cittá moderna, coperta di publicitá multicolori. Al fondo del fiordo che formavano le alte facciate geometriche, un torrente di macchine, di tram sferragliando in una pioggia di scintille, i bar che vibravano per la musica ritmata messa a fondo ed i ristoranti decorati imitazione orientale in Oriente ! In quel magma meccanico, imperturbabile, un mulo con un vecchio sacco appeso sotto la coda per raccogliere il concime, tirava una carretta con le ruote di gomma. Steso sopra il carico, il padrone dormiva a pugni chiusi, con il berretto tirato sul naso.

Aldilá della cittá, c' era l' eterno silenzio delle vaste montagne libanesi. Il vecchio mondo degli eroi fenici e dei tagliatori di pietre bianche. Qui i sogni si mescolavano agli odori dei limoni, della carena che pittavamo e delle spezie orientali. Gli odori non hanno etá ! L' antichitá aveva sicuramente l' odore dei limoni, della pittura per barche e del mercato del pesce.

Quella sera facemmo la festa, il veliero era pronto. L' indomani mattina, ripartimmo con destino l'Egitto ed il Mar Rosso.

Disegno a penna di O.Gonet

 

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